Che Lana del Rey non fosse solo un fenomeno di passaggio, era ormai chiaro ai più: il suo nome, in seguito al rilascio del best seller "Born To Die", lavoro di debutto, ha iniziato ad espandersi in modo costante, a moltiplicare le aree di influenza, per poi crearsi un posticino, nemmeno troppo -ino, all'interno di quella grossa fetta di industria che ormai è il musicbiz. Più difficoltoso appariva, invece, determinare se questo fenomeno potesse lasciare un segno, positivo s'intende, più per la sua musica che per il personaggio in sé. Eh sì, perché dare come supporto ad un progetto musicale un 'immagine costruita a pennello, potrà aiutare ad attecchire su un terreno pop, in cui emerge meno la musica e più il personaggio, ma non cattura certo il pubblico alternative, che associa a certe prepotenze di immagine un ruolo commercializzante e, paradossalmente, spersonalizzante. E, ironia della sorte, era proprio quella la fetta di pubblico su cui intendeva far presa. Ma si sa, un fanbase pieno zeppo di adolescenti non aiuta la credibilità. Comprensibile quindi che si sia generata una vera e propria caccialuomo da parte degli ambienti meno mainstream, che hanno puntualmente massacrato ogni mossa della cantautrice newyorkese. E spesso e volentieri, più per sport che per pretese artistiche.
L'intento della Grant era di conciliare due mondi oltremodo distanti, di annientare l'idea alternative del "lathe biosas": lontano dalle classifiche, dal pubblico abituato a musica usa-e-getta, avvicinandosi alle radio attraverso melodie squisitamente pop. Certo, Born to die, per certi versi, era fin troppo pop, fin troppo melodico, fin troppo da classifica, insomma, molto poco alternative. Questo non vuol dire che i presupposti non ci fossero, e sono infatti emersi a distanza di una decina di mesi, nell'EP seguente, Paradise, anello di congiunzione tra il lavoro di debutto e l'album successivo. La sostanza c'era, eccome: un processo di raffinamento era già in corso, ed un lieve discostarsi dall'easy listening poteva già esser rintracciabile; uno stato embrionale del lavoro seguente, forse grezzo, poco rifinito, ma godibile. Non abbastanza per molti. E non a torto.
Ora, già dall'annuncio del rilascio del terzo lavoro, i più scettici avevano pronto il fucile, caricato con pallottole al vetriolo, pronti a sommergere di critiche la cantautrice, sicuri che la formula di Born To Die si sarebbe ripetuta. I fatti però sono altri: i singoli rilasciati durante il corso delle varie settimane hanno dimostrato una gran crescita artistica, da un lato prettamente musicale a quello d'immagine, nonché da un punto di vista cantautoriale, e fin dall'ascolto del poco radio friendly primo singolo, West Coast, un gioiellino dalle tinte estive, a metà tra rock e cantautorato, alla Tori Amos, i più acerrimi detrattori della del Rey hanno abbassato le armi, pronti ad essere investiti dalla novità. E che novità!
Ultraviolence ( chiaro riferimento al capolavoro di Kubrick, Arancia Meccanica) continua il processo di evoluzione iniziato con Paradise, liberandosi definitivamente della produzione pedante, eccessivamente barocca, e affidandosi nelle mani di Dan Auerbach ( Sì, quello dei Black Keys ) e Paul Epworth ( Produttore di un certo 21 ). Anche qui riesce difficile applicare un etichetta di genere, ma appare evidente che Del Rey ha voluto lasciarsi alle spalle i ritmi urban, che hanno caratterizzato il debutto, a favore di un rock spurio, dominato da evanescenti linee di basso, strazianti rintocchi di chitarra, archi sfuggenti e sinuosi, percussioni dall'andatura funerea, che sembrano sfumare fino ad essere trascinati via in una dimensione senza tempo a causa del forte riverbero.
Con Ultraviolence si viene catapultati indietro di almeno mezzo secolo; è così immerso nel suono del passato da sembrare, per quanto paradossale, freschissimo, quasi senza tempo. Compaiono con decisa frequenza citazioni, al Jazz, per esempio, e alla beat poetry, anche ad artisti, vedi The Other woman, cover di Nina Simone, o Lou Reed in Brooklyn Baby, la cui struttura musicale stessa appare come un omaggio all'ex componente dei Velvet Underground ( con cui, si dice, avrebbe dovuto collaborare). Ad agevolare questo salto nel tempo, ancora il riverbero, che rende la soffice e melliflua voce della del Rey rarefatta, lontana, quasi come un'eco dal passato.
Punto forte dell'album: l'uniformità, che rende le tracce indissolubilmente legate l'una all'altra, senza con questo eliminare il limite che rende distinguibili i pezzi. La coerenza di fondo, che si protrae fino all'ultima nota, registra una grande fedeltà all'idea che la cantante aveva del suo progetto: ogni granello rientra in un preciso schema, in un'idea ben chiara, e ne restano fuori potenziali album filler. Ne deriva un lavoro monocromatico, ma non asfissiante, puntellato da tocchi di bianco e nero ( molto nero ), un raccapricciante quanto suggestivo quadro di una realtà lontana, ma neanche troppo. Di grande aiuto ai fini di questo risultato la partecipazione di Auerbach, come detto sopra, il quale ha stracciato l'eccessiva tendenza al barocco della cantante, donando al progetto un suono lucido, pulito, raffinato, svuotato di ogni orpello.
Queste caratteristiche, oltre a fare dell'album un lavoro artisticamente credibile, e quindi ad aver contribuito a confutare la precedente idea che si aveva della cantautrice di Brooklyn, hanno anche spinto la critica a definire il lavoro un concept album. Ora, non possiamo affermare con assoluta certezza che fossero veramente queste le intenzioni della Del Rey, ma d'altro canto balena all'udito l'intrinseco file rouge che unisce indissolubilmente i personaggi dei testi: Ultraviolence ci consegna un microcosmo femminile brulicante di fragili quanto seducenti creature, che ostentano atteggiamenti da femme fatale, vestendo in rosso e sorseggiando Chardonnay sullo sfondo di un fumoso tramonto, mentre dentro sono erose dal dolore, creature viziate ed enigmatiche, sottomesse dai loro uomini, dalle loro stesse tendenze masochiste, dai loro squallidi incorreggibili difetti, creature diaboliche disposte a vendere la propria femminilità in nome della gloria, donne che nutrono un quanto mai inappetibile desiderio di sicurezza, di protezione, e vivono all'ombra del loro amore. Certo, ne emerge un quadro terrificante, quasi antifemminista, ad una prima ( e superficiale ) analisi, un concetto di "donna" demodé ma al contempo dannatamente attuale. Ed è qui la chiave di volta che ci permette di penetrare il senso di Ultraviolence: non c'è nulla di
antifemminista nello straziante assolo di chitarra di Shades Of Cool, dipinto di una donna alle prese con un tossicodipendente, nulla di anacronistico nell'angosciante title track, la cui protagonista subisce violenze fisiche dall'amante, nulla di aberrante nel blues ansiogeno di Sad Girl, in cui emerge tutta la fragilità della femme fatale, nulla di tutto ciò, perché, proprio attraverso tematiche impegnative, del Rey, in un sottile gioco di paradossi, ci riporta ai nostri tempi, in cui la condizione della donna, nonostante tutti gli sforzi e il cospicuo numero di anni, tutto sommato, non è poi così cambiata: episodi di violenza, sessuale e non, sono ancora protagonisti dei tabloid e ancora spadroneggia, in alcune circostanze più che in altre, l'idea della donna-serva, rilegata in casa, ad accudire i figli, sottomessa al marito e alla famiglia, e ancora più forte, tutt'oggi, è sentita l'oggettificazione della donna, la mercificazione del proprio corpo a favore di una possibilità nel mondo del lavoro, per esempio, o per la gloria ( come in Fucked My Way Up To The Top ).
A sostegno di questo sottile ( ma in realtà prepotente ) atteggiamento femminista, la prima traccia, Cruel World, pezzo spettacolare, dai toni volutamente più accesi, in cui riaffiora delicata tra la superficie musicale l'idea di una donna pronta a ricominciare, seppure lento pede, che si riscopre felice, ora che il suo amato non fa più parte della sua vita ( I'm so happy now that you're gone ), donna che quindi ritrova la sua femminilità, in un mondo dannatamente crudele, cruel world appunto, come quello di Ultraviolence, che poi è il nostro.
A sostegno di questo sottile ( ma in realtà prepotente ) atteggiamento femminista, la prima traccia, Cruel World, pezzo spettacolare, dai toni volutamente più accesi, in cui riaffiora delicata tra la superficie musicale l'idea di una donna pronta a ricominciare, seppure lento pede, che si riscopre felice, ora che il suo amato non fa più parte della sua vita ( I'm so happy now that you're gone ), donna che quindi ritrova la sua femminilità, in un mondo dannatamente crudele, cruel world appunto, come quello di Ultraviolence, che poi è il nostro.
E' un lavoro cinematografico, come suggerisce il titolo, in ogni sua sfumatura, grazie al dipinto che offre di un mondo femminile dilaniato dalla violenza, un lavoro compatto, monocromatico, quasi perfetto nel suo avanzare narcolettico. Quasi, sì perché se bisogna trovare una nota stonata questa è il non aver osato al massimo: abbandonare la struttura strofa-ritornello, "novità" tra l’altro introdotta da Paolo Nutini nel suo ultimo LP, avrebbe potuto concedere ampio respiro alla dimensione lirica all’interno dell’album; ciononostante il risultato è piacevole, e come al solito, la del Rey, dimostra grandi capacità nella composizione dei testi.
In conclusione, Ultraviolence, è un album tremendamente languido, senza scendere nel ridicolo; omogeneo, senza risultare pedante; impegnato, ma mai pretenzioso; adatto ad accompagnare certe notti umide e piovose di metà novembre, quando le gocce di pioggia si lasciano morire sul vetro, freddo e umido, della finestra, nella speranza che il mondo si risvegli meno crudele di oggi.
Ringraziamo Matteo Zandri per questa recensione, tornato a scrivere per noi dopo un lungo periodo di assenza.
Se vi è piaciuta la recensione vi invitiamo a leggere anche quella dell'album precedente Born To Die!
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