Recensione Album: Lady Gaga & Tony Bennett - Cheek to Cheek


Lasciamo da parte, per un po', le cosidette rivelazioni dell'anno: scansiamo Ariana Grande, indecente sottoprodotto partorito dai media, tenuto in piedi dagli scarti discografici ventennali di Mariah Carey; buttiamoci alle spalle Kiesza e il suo guazzabuglio di osceno eurodance, buono solo a popolare le radio italiane; Stendiamo un velo pietoso su Iggy Azalea, e il suo imbarazzante spacciarsi per rapper navigata. Dimentichiamoci, una volta per tutte, vi prego, della varie stelle passeggere, che lasciano al loro passaggio più fumo nero che scintillante entusiasmo, le varie Lorde e Miley Cyrus. Giriamo le spalle a tutta l'orrenda musica pop propinata con incessante e vergognosa superbia dalle case discografiche avide di introiti. Invece, concentriamoci sulla vera grande sorpresa del 2014, Cheek to Cheek: un piccolo scrigno grondante di sentimento e incanto.


Lo spettacolo offertoci da questo gioiellino d'altri tempi, è un universo scintillante, impastato dalle gloria dell'old style a stelle e strisce, un mondo in costante bilico tra due forze in contrapposizione perenne, che abbandonano le armi, si abbracciano in un estasi d'armonia, e si levano al canto dei classici d'oltreoceano. Da una parte, la più grande popstar dell'ultimo decennio, checchè ne dicano i detrattori, tutta eccessi e outift strabilianti; dall'altra, la voce guida, agile e colma d'esperienza, dell'ultimo grande crooner in vita. Insieme, un brioso esperimento musicale. Riuscito stramaledettamente, direi. Anzi, lo urlerei. Difficile immaginarsi Gaga, e il suo amore per la stravaganza, ridimensionata a tal punto da suonare vera e limpida come mai prima d'ora.
 Piuttosto consueto, d'altro canto, focalizzare in modo nitido nella nostra mente, Tony Bennet, più che ottantenne oramai, a far da cicerone in questa gita tra i classici Jazz. Diciamolo, l'album era attesto al varco molto più dai detrattori della star italo americana che dai suoi aficionados, e be'... sono rimasti a digiuno, anche giustamente. Sotto l'ala protettiva del crooner, GaGa risulta a suo agio, anche se non la vediamo più a sgambettare tra cambi d'abito e ritmi sincopati, ma a misurarsi direttamente con la crème de la crème del repertorio jazz, e sopratutto, con la sua arte. Sì, quella che in ARTPOP era emersa decisamente con meno vigore del pop. 

GaGa maneggia il genere con la dimestichezza di una vera jazz singer, bisogna ammetterlo. I più dubbiosi, del resto, lo hanno già affatto. Bennet, invece, non ha più nulla da dimostrare. Si muove con estrema abilità, il fraseggio è elegante e sicuro, l'interpretazione è magistrale. Ma c'è da dirlo? Insomma, è Tony Bennet. Un mostro sacro. Canta jazz da diverse ere geologiche, o giù di lì. Il suo grande compito in questo progetto discografico era un altro: contenere l'esuberante popstar, bestia da palcoscenico, e accompagnarla, mano nella mano, come padre e figlia, attraverso questo arduo cammino. 
Questa odd couple brilla nei duetti come pura luce lunare: con soffice eleganza, delicata maestria. Senza mai eccedere. Che bisogno c'è, del resto? Il timbro baritonale del Crooner di origini calabresi si mesce con quello della Germanotta, con una tessitura quasi da soprano ( presa in prestito), in un fascinoso, armonico scoppientante orgasmo vocale. Ciò che sorprende, più di ogni altra cosa, è l'autonomia musicale di Gaga: mai sopra le righe, mai eccessiva ( o quasi ). Capace perfino di non sfigurare accanto al crooner. Si fa spazio nella tracklist senza mai boccheggiare o cadere goffamente per il divario dei generi. E il rischio c'era. E molti null'altro aspettavano che un autogol nella rete di Gaga, di un eclatante quanto ridicolo suicidio pubblico. 


Ma ecco, basta inserire il cd nell'apposito lettore per verificare la magia. Non c'è spazio per le critiche. Solo elogi per un'artista in grado di padroneggiare la sua carriera musicale con tale estrosità e duttilità. La tracklist è piena zeppa di standards jazz/swing, a dir poco leggendari; tra tutte, ne spiccano alcune, come Nature Boy, brano senzatempo, rinfrescato di recente da Baz Lurhman nel suo Mouiline rouge, in questa occasione arricchito dalla presenza del vulnerabile flauto di Paul Horn, venuto a mancare da poco; oppure, la spettacolare Cheek to Cheek, che brilla di luce propria; e poi ancora Lush life, brano che avrebbe messo in difficoltà i più, interpretato alla grande da una emozionante Gaga, sola sola, a fronteggiare la sacralità del pezzo; e come non nominare il singolo di lancio, la scoppiettante Anything Goes? Certo, quasi d'obbligo, qualche altra traccia è invece riuscita di meno, come la pesante cover di Bang Bang ( attempato pezzo di Cher, scrittole da marito) dove una GaGa, lasciata sola, calca un po' troppo l'interpretazione. Ne viene fuori un'esibizione senz'altro piacevole, ma fin troppo teatrale ed eccessiva. Ma ecco, si tratta di dettagli, non trascurabili magari, ma sempre di dettagli. Nel complesso, non si può fare a meno di godere di questo lavoro, e elogiare la grande crescita artistica di GaGa, che mai perde occasione per dimostrarsi una spanna al di sopra delle sue colleghe, e anche, perché no, apprezzare la flessibilità e maestria di Bennet, vera e propria guida musicale - e spirituale, come confessato dalla stessa Lady GaGa - in questo patinato, lussuoso mondo Jazz.

Ringraziamo Matt per questa recensione!

Commenti